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In attesa di assistere domenica 1 gennaio all’investitura di Luiz Inácio Lula da Silva, molti suoi sostenitori sono arrivati a Brasilia in carovane provenienti da tutto lo sconfinato paese, e hanno deciso di accamparsi allo stadio Mané Garrincha. Già ieri a migliaia hanno cominciato a festeggiare nelle strade della capitale. Incaricato di guidare il paese per la terza volta, dopo aver governato per due volte tra il 2003 e il 2010, Lula sarà al centro di una cerimonia alla quale assisteranno delegazioni di più di cinquanta nazioni, e sarà il beniamino di una grande festa che dovrebbe coinvolgere più di 300.000 persone.

Ieri i fan di Lula che hanno scelto di accamparsi per festeggiare il ritorno del loro presidente hanno ricevuto la visita della futura ministra dei Popoli Indigeni, Sônia Guajajara, riconosciuta nel 2022 dalla rivista Time come una delle cento personalità più influenti del mondo. Mentre in altre parti della capitale si sono registrati raduni spontanei di militanti del Partito dei Lavoratori e di attivisti dei movimenti sociali, Brasilia è stata trasformata in una città blindata in cui sono stati mobilitati quindicimila agenti incaricati di vigilare sull’ordine pubblico per impedire che le minacce dei gruppi estremisti di destra non si traducano in atti contro la legge.

Non sarà presente il presidente uscente Jair Bolsonaro, e pertanto la cerimonia del passaggio della fascia presidenziale non avrà luogo. Come già avvenne con Cristina Kirchner nei confronti del suo successore di destra Mauricio Macri in Argentina. Bolsonaro è volato in Florida accompagnato da un gruppo di aiutanti, e non ha precisato quando farà ritorno in patria. Fonti a lui vicine hanno fatto sapere che intende trascorrere almeno tre mesi fuori dal paese. Ma la sua assenza si farà sentire già oggi stesso e sottolinea la profonda spaccatura del Brasile che Lula eredita. Nell’ultima diretta sui suoi social prima di partire, l’ex presidente ha detto che “è un governo che nasce storpio”, e che “il Brasile non finirà il 1° gennaio. Abbiamo perso una battaglia, ma non perderemo la guerra.”

Dal 2 gennaio, dopo la festa di domenica, inizierà il percorso di Lula. Se recentemente aveva dichiarato che tutti “dovranno stringere la cinghia”, guiderà un governo in cui il numero di ministeri si è gonfiato passando da 23 a 37, con 11 donne, rappresentanti dei popoli originari, e persino una cantante nera a capo del rinato ministero della Cultura. Nelle lunghe settimane dopo il ballottaggio che lo ha premiato di misura, Lula ha dovuto far ricorso a tutte le sue doti di mediatore per accontentare il Movimento Democratico Brasiliano (MDB), il Partito Socialdemocratico (PSD) e l’ Unión Brasil, ovvero tutti i partiti che lo hanno appoggiato. Unión Brasil ha ottenuto il ministero delle Comunicazioni e quello del Turismo, ed è anche il partito che ha eletto senatore Sergio Moro, ex giudice simbolo della Lava Jato, la cui indagine ha portato all’arresto di Lula per corruzione nel 2018. Ora il suo partito governa proprio con il più noto imputato della vicenda, ma Moro non si è dimesso, confida che il suo partito manterrà una posizione “indipendente”.

Alla fine Lula ha dato vita ad un gabinetto in cui la guida pare saldamente in mano a uomini del Partito dei Lavoratori, ma che non è privo di potenziali punti di rottura che potrebbero minare il suo percorso. Mentre oggi Folha de S.Paulo pubblica un suo sondaggio secondo il quale solo il 51% dei brasiliani credono che Lula farà un governo migliore di Bolsonaro, con una aspettativa sul risultato della gestione e sul compimento delle promesse più bassa del consueto. Il fatto è che dei 37 ministri annunciati, almeno una dozzina sono stati indagati o sono coinvolti in scandali di corruzione, fondi illeciti (“caixa dois”) e cattiva condotta amministrativa (“improbidade”).

È il caso, per esempio, del nuovo ministro dell’integrazione, Waldez Góes, condannato per appropriazione indebita di fondi, condanna contro la quale ha presentato appello e che ora è in discussione nella Corte Suprema Federale (STF). E del ministro della Giustizia e della Sicurezza, Flávio Dino, indagato per sospetto di illegalità in un contratto di fornitura di carburante per un elicottero della Segreteria di Pubblica Sicurezza dello stato di Maranhao. Nel 2020, l’indagine è stata archiviata dalla Corte Superiore di Giustizia (STJ).

Era stato condannato anche il ministro dell’economia, Fernando Haddad, cui è stata inflitta una pena di quattro anni e sei mesi dalla giustizia elettorale per falsità ideologica elettorale per fondi illeciti nella campagna del 2012, quando è stato eletto sindaco di San Pablo. Nel 2021, il Tribunale Regionale Elettorale di San Paolo lo ha assolto per mancanza di prove.

La lista continua con il futuro ministro della Casa Civile, Rui Costa, in pratica il primo ministro, che è oggetto di un’indagine in corso nella STJ per reati di riciclaggio di denaro, appropriazione indebita e frode nell’aggiudicazione di contratti presumibilmente commessi quando presiedeva il Consorzio Nordest incaricato di comprare durante la pandemia respiratori che non sono mai stati consegnati agli ospedali, per un valore di 50 milioni di reais, circa 9,5 milioni di dollari. Per finire con il capogruppo alla Camera, José Guimarães, che i brasiliani ricordano per la vicenda del suo ex consigliere José Adalberto Vieira, arrestato all’aeroporto di San Paolo nel 2005 con 100.000 dollari nella sua biancheria intima e 200.000 reais, circa 38.000 dollari, nella sua valigia, un crimine che poi è andato in prescrizione.

Mentre centinaia di bolsonaristi sono accampati alle porte delle caserme e chiedono un intervento delle forze armate che eviti la investitura del presidente eletto, diverse decine hanno allestito un intero campo alle porte del quartier generale dell’esercito di San Paolo, con la convinzione che i militari agiranno prima che sia troppo tardi. Nei campi allestiti nel paese predominano le bandiere del Brasile e i cartelli con messaggi come “SOS Forze Armate”, “Tutti per la patria” o “Intervento militare”. Flávio Dino, prossimo ministro della Giustizia, ha già dichiarato che vuole disperderli il più presto possibile, senza escludere la via del “dialogo”.

Ciò detto, Lula si trova ad operare con un’amministrazione piena di militari, come mai era successo in passato, nemmeno durante il ventennio della dittatura. Anche questa è una eredità lasciatagli da Bolsonaro, che ha aperto ministeri ed aziende pubbliche agli uomini in divisa, fino a chiedere loro di supervisionare la regolarità delle elezioni di ottobre. Le forze armate hanno allora accettato di  effettuare un controllo sul processo elettorale che, pur avendo confermato che non c’è stata alcuna frode, ha lasciato aperta la possibilità che l’attuale sistema possa essere oggetto di attacchi informatici. Con il suo operato, Bolsonaro ha impresso un marcato accento militare al complesso dell’amministrazione che Lula vuol far cessare, come pure suo obiettivo è far in modo che le caserme siano tenute al riparo dalle incursioni della politica.

L’aumento della presenza militare nell’amministrazione è confermata dagli ultimi dati della Corte dei Conti, secondo i quali nel 2018 c’erano 2.765 militari, attivi o di riserva, che occupavano posizioni civili nel governo. Nel 2019, il primo anno di gestione di Bolsonaro, il loro numero è passato a 3.515, ed è salito a 6.157 nel 2020, di cui circa la metà con posizioni di “commissari” che il governo di Lula potrebbe sostituire a breve termine.

Una delle scelte più delicate che Lula ha dovuto fare, tenuto conto dell’aumentato peso dei militari nell’amministrazione, è stata quella del ministro della Difesa che è andato a José Múcio, politicamente un conservatore con buoni rapporti personali con l’ala bolsonarista e con gli alti gradi dell’esercito, della marina e dell’aeronautica. È toccato a lui far conoscere che il nuovo esecutivo considera “assolutamente necessario” depoliticizzare le forze armate, liberandole dalle attenzioni dei partiti. Un fenomeno che si è verificato e intensificato durante il mandato di Bolsonaro soprattutto a causa dell’uso dei social network, a tal punto che non sono mancati settori militari che hanno partecipato alla campagna contro le urne elettroniche guidata dall’ex presidente.

Oggi, come è giusto, è il momento dei sorrisi e dell‘ottimismo, ma gli osservatori più attenti già puntano la lente su quelli che potrebbero essere i punti deboli del nuovo governo. Tra questi rientra a pieno titolo quello relativo alla gestione dell’economia che Bolsonaro aveva affidato alla guida del super ministro Guedes, e che ora invece Lula spezzetta in aree di competenza. All’ex sindaco di San Paolo Fernando Haddad, fedelissimo di Lula, va il ministero dell’economia, mentre a Ester Dweck viene affidata la gestione. Come i due principali gestori del settore economico possano collaborare è difficile dirlo, visto che Haddad si è sempre espresso a favore di una condotta improntata alla responsabilità fiscale, mentre Dweck è paladina della Teoria Monetaria Moderna che sostiene politiche fiscali espansive e per la quale né il debito né l’inflazione sono un problema. Gli altri ministeri dello Sviluppo, dell’Industria e del Commercio e della Pianificazione, in cui viene spezzettato il ministero dell’Economia di Bolsonaro, sono stati assegnati a persone differenti.

A Geraldo Alckmin ex governatore di San Paolo legato, secondo la stampa brasiliana, all’Opus Dei, che ha lasciato il Partito della Social Democrazia Brasiliana (PSDB) per la sua nuova avventura politica come vicepresidente, viene affidato anche il ministero dell’Industria. A Simone Tebet, che ha sfidato Lula al primo turno delle recenti elezioni presidenziali, accusandolo persino di corruzione nei dibattiti televisivi, viene dato il ministero della Pianificazione. Al primo turno era arrivata al quarto posto con il 4,2% dei voti, ed ha deciso di sostenerlo al ballottaggio. Tebet, rappresentante dell’agro industria e originaria del Mato Grosso, avrebbe preferito il ministero dello Sviluppo Sociale, che controlla il programma “Bolsa Familia” per l’aiuto ai poveri. Lula ha pensato bene di metterlo nelle mani di Wellington Dias, petista doc ed ex governatore di Piauí, tanto più che nell’entourage del neo presidente nessuno ha scordato che Tebet aveva votato a favore dell’impeachment di Dilma Rousseff. Per quanto riguarda la gestione dell’economia, si prevedono attriti tra Haddad, che è contro l’attuale tetto di spesa fissato per legge, e quello di Tebet, che lo ha sempre difeso.

Torna ministro dell’Ambiente Marina Silva, nota ambientalista ex senatrice del partito Rede. Era già stata ministra di Lula all’inizio del suo primo mandato, nel 2003, ma se ne era andata nel 2008, rompendo con il PT che poi le aveva scatenato contro una violenta campagna quando si era candidata nel 2014 alle presidenziali contro Dilma. Lula ha mantenuto la promessa che aveva fatto ai manifestanti che protestavano contro le politiche di Bolsonaro in Amazzonia ed ha creato un ministero dei Popoli Originari nominando a guidarlo la deputata indigena del Partito Socialismo e Libertà (PSOL), Sônia Guajajara. L’Amazzonia può forse tornare a sperare. Rinasce anche il Ministero della Cultura diretto dalla cantante Margareth Menezes che dovrà gestire un budget di 10.000 milioni di reais, circa due miliardi di dollari, entro il 2023. Oggi il giuramento, le festa e i bagni di folla. Da domani, una strada in salita.