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L’America Latina ha registrato un peggioramento generalizzato della libertà di stampa anche a causa del coronavirus che ha di fatto operato come acceleratore della censura e “creato serie difficoltà per accedere all’informazione sulla gestione dell’epidemia da parte dei governi della regione”.

E’ quanto si legge nel rapporto annuale 2021 diffuso oggi a Parigi da Reporter senza frontiere, l’organizzazione non governativa che difende la libertà di informazione e di stampa. Secondo RSF queste limitazioni si sono tradotte “in uno spettacolare peggioramento dell’indicatore che misura le difficoltà di accesso all’informazione da parte dei giornalisti”, facendo sì che l’America Latina sia stato il continente dove più è peggiorata la libertà di stampa, con Paesi come Cuba, Honduras e Venezuela a rappresentare i casi peggiori.

Se nella classificazione generale si registrano i casi positivi di Costa Rica, Uruguay, Repubblica Dominicana e Belize dove la libertà di stampa è tutto sommato tutelata, sono molte le nazioni latinoamericane in cui il diritto all’informazione e la professione giornalistica hanno subito un peggioramento o sono sotto attacco, peggiorando la loro posizione nella graduatoria stilata da RSF.

 E’ per esempio questo il caso del Brasile di Jair Bolsonaro, dove l’accesso alle cifre ufficiali dell’epidemia è diventato complesso, generando tensioni tra governo e organi di informazione, accusati di enfatizzare i dati della crisi in chiave antigovernativa. Situazione che ha fatto retrocedere il gigante latinoamericano di 4 posizioni situandolo al 111° posto della graduatoria.

Simile situazione si è registrata anche ne El Salvador di Nayib Bukele, dove alla stampa non gradita al giovane presidente vengono costantemente frapposti ostacoli all’accesso alle informazioni, giungendo perfino al vero e proprio boicottaggio, come nel caso de El faro. Mentre da parte del governo si assiste costantemente alla messa in opera di misure atte a screditare gli organi di comunicazione attraverso “una retorica antimediatica, la cui aggressività va crescendo”.

 Per il pulgarcito de America, il pollicino, come viene comunemente chiamato il piccolo El Salvador, la discesa nella graduatoria della libertà di informazione è di addirittura otto posizioni, collocandolo all’82° posto.

Non di miglior salute gode per altro il Messico di López Obrador, dove quella di giornalista è una professione ad alto rischio della vita per la pericolosità di un contesto in cui dominano i cartelli del narcotraffico e la malavita organizzata. E dove il presidente in carica, con le sue conferenze stampa mattutine, è quotidianamente impegnato a descrivere un Paese che sta più nei suoi desideri che nella realtà. Dove quindi ogni critica che gli provenga dai giornali viene vissuta come un disturbo al suo ego narrante, alla quale risponde stigmatizzando i giornalisti colpevoli di descrivere una realtà in cui non si riconosce, con ciò contribuendo ad isolarli ancor più in una realtà già così difficile e pericolosa.

Tutto ciò nel mentre la libera stampa sta letteralmente agonizzando nel Nicaragua di Daniel Ortega, che andrà al rinnovo delle massime cariche politiche nel prossimo novembre con il rischio di non veder accettato il risultato da parte dell’Amministrazione Biden e dalla Comunità Europea. Un esito che, stante la situazione, pare essere scontato.

E sta per essere soffocata nel Venezuela di Maduro, impegnato personalmente a promuovere le goticas milagrosas del Carvativir, la cui efficacia non è stata mai provata dalle autorità sanitarie, che da parte loro si trovano a dover affrontare l’epidemia di coronavirus, i cui dati ufficiali arrivano col contagocce, nella quasi totale assenza di vaccini e in condizioni ospedaliere drammatiche, causate dalle sanzioni internazionali e dagli imperdonabili errori e dalla corruzione del governo.

A tal punto che sabato scorso i lavoratori della salute sono dovuti scendere in piazza a Caracas per chiedere un piano di vaccinazioni serio e non improntato a criteri politici.

Ma a star peggio di tutti, e nella zona nera della classifica al 171° posto, la libertà di stampa di Cuba, che ha da poco chiuso il congresso del Partito Comunista che ha segnato il passaggio del testimone dalla generazione della Rivoluzione a quella dei tecnocrati sessantenni, capeggiati da Miguel Díaz-Canel, in una riaffermata continuità col passato che ha di fatto rinviato ogni decisione di cambio economico. Tutto ciò mentre l’isola vive da tempo una grave crisi dovuta alla fine del turismo, all’inasprimento delle sanzioni volute da Trump, dall’attendismo di Joe Biden e alla scarsità dei rifornimenti dall’estero, da cui i cubani traggono l’80% dei loro beni di sostentamento.

E mentre sembra crescere il distacco delle nuove generazioni dalle pur reali conquiste della Rivoluzione in fatto di salute, educazione e dignità, di cui pur si sono accontentate le vecchie, memori di un passato intessuto di profonde ingiustizie. Un distacco testimoniato dalla nascita recente di movimenti di contestazione, come quello di San Isidro, che ormai vivono come anacronistico ogni baluardo che il governo pone a salvaguardia di quelle conquiste, e di sé stesso.